La Class Action, o azione collettiva, necessiterebbe di approfondimenti che potrebbero essere efficaci solo se la sua implementazione nella UE prendesse spunto dall’esperienza maturata negli Stati Uniti dove è stata introdotta nel 1842 e modificata nel 1938. La sua formulazione s’è rivelata utile al contrasto di abusi in moltissime occasioni, nel corso dei quasi due secoli di applicazione. In Italia, nonostante la sua recente introduzione, non ha ottenuto risultati degni di nota e, a nostro avviso, il legislatore ha agito con scarsa determinazione e, probabilmente, anche con poca consapevolezza, se si considerano gli squilibri derivanti dall’applicazione di norme non omogenee, nel settore finanziario, che si è globalizzato proprio per utilizzare a proprio vantaggio le differenze normative. I cittadini, pur lamentandosi della carenza normativa, non hanno saputo organizzarsi in classi che potessero evidenziare i problemi e dare un contributo costruttivo alla definizione di norme dissuasive degli abusi.
Lo scopo dell’attivazione di un’azione di classe dovrebbe essere quello di consentire la fattibilità di un’azione legale di gruppo, che favorisca la tutela dei diritti individuali ai singoli soggetti appartenenti ad una categoria omogenea, a costi contenuti e con il supporto di competenze che i danneggiati non posseggono, ma che in gruppo è più agevole ed economico reperire. L’azione di classe dovrebbe perseguire i comportamenti lesivi dei diritti, messi in atto da un’impresa o da un ente gestore di servizi pubblici e/o di pubblica utilità. I diritti sono individuali, ma l’azione è collettiva e viene promossa da chi intende tutelare una categoria.
Sin dall’inizio, bisognerebbe introdurre norme chiare, che non consentano dubbi o discrezionalità, che evitino ai ricorrenti di avviare azioni senza alcun fondamento e nello stesso tempo che inducano chi eroga servizi o chi produce e immette sul mercato prodotti di consumo o finanziari, a non violare i diritti, perché consapevole che non potrebbe più aspettarsi che solo una minima parte dei danneggiati faccia ricorso in giudizio. Quindi, la definizione delle categorie e degli abusi dovrebbe essere predisposta con il contributo di chi conosce la classe e gli abusi che l’hanno danneggiata nel passato.
Produciamo una sintesi schematica dei passaggi con cui la Class Action è stata introdotta in Italia e in Europa, per evidenziare che la buona volontà ci sarebbe stata, ma quanto sin qui attuato si è rivelato scarsamente efficace, perché non si è mai aperto un vero tavolo, che avesse lo scopo di introdurre una norma in grado di contrastare abusi globalizzati. Per riuscirci, si dovrebbe prendere in considerare i meccanismi che hanno consentito gli abusi del passato.
- In Italia il primo tentativo per introdurre una possibile azione di classe è stato fatto nel 2007, con l’art. 140 bisnel Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 , che disciplinava la possibilità di un’azione di classe nel codice del consumo.
- Dopo dodici anni è stata approvata la Legge 12 aprile 2019, n. 31, la quale ha introdotto il titolo VIII bis dei procedimenti collettivi nel libro IV del codice di procedura civile. L’entrata in vigore della nuova disciplina della Class Action, prevista per il mese di aprile 2020, è stata prorogata al mese di ottobre 2020 e poi a novembre 2020 dalla legge n. 8 del 28 febbraio 2020. Le proroghe sono state deliberate per i problemi generati dalla pandemia.
- Con l’introduzione delle nuove norme, la proponibilità di una class action non era più limitata ai soli casi di responsabilità contrattuale, ma era proponibile anche in caso di lesione di diritti non soggetti all’esistenza di un contratto.
- https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2023/03/23/23G00036/sg Il link consente di scaricare il Decreto legislativo 28/2023, con cui è stata recepita la direttiva Ue 2020/1828 con cui è stata introdotta in Italia anche l’Azione rappresentativa, così chiamata dalla Commissione europea.
Da un articolo dal titolo “Doppio binario per la class action”, pubblicato da: Il Sole 24 Ore il 19 aprile 2023, si apprendeva – Dal 25 giugno, la class action viaggerà su due corsie differenti. Il decreto legislativo 28/2023 oltre a introdurre l’azione transfrontaliera, prevede anche una nuova azione nazionale che si affiancherà alla disciplina “generale” dettata dalla legge 31/2019 e in vigore, dopo molti rinvii, dal 19 maggio 2021. – Poi commentava – Il risultato è che, per i ricorsi “domestici” ci saranno due normative parallele con campi di applicazione e regole differenti su molti aspetti, sia procedurali che sostanziali. Non va inoltre dimenticato che, per gli illeciti commessi fino al 19 maggio 2021, la disciplina di riferimento continua ad essere quella precedente alla legge 31, e cioè l’articolo 140-bis del Codice del consumo. Per chi gradisse leggere l’intero articolo, è facilmente scaricabile da internet digitando il titolo.
Noi preferiamo non esprimere considerazioni sugli aspetti giuridici. Ci sono certamente professionisti con competenze più ampie delle nostre che possono entrare nel merito e dare valore aggiunto, se ascoltati. Noi vorremmo offrire un contributo costruttivo, esponendo fatti accaduti nel passato e denunciati in più occasioni, che, se analizzati con la dovuta attenzione, potrebbero certamente offrire una traccia per evitare l’introduzione di norme che non siano in grado di evitare ciò che è accaduto prima della loro introduzione e che è rimasto impresso nella memoria di chi ha concesso fiducia ad operatori di mercato che non la meritavano, pagandone le conseguenze.
Esistono molti esempi che potrebbero documentare la necessità d’introdurre una Class Action veramente efficace, per evitare abusi in ambito finanziario. Il caso Parmalat, i diamanti da investimento, e il passaggio di mano dei titoli di stato emessi dall’Argentina poco prima del loro default, dimostrano come emittenti ed intermediari abbiano potuto approfittarsi del pubblico risparmio. Porteremo un altro esempio meno noto, ma in grado di dimostrare come, in mancanza della possibilità di una reazione collettiva, sia stato possibile approfittarsi dei risparmiatori, semplicemente perché chi ha attuato una strategia illecita, era convinto che nessuno, o solo una minima parte dei danneggiati, avrebbe fatto ricorso in giudizio.
La tutela del risparmio è garantita dall’Art. 47 della nostra Costituzione e le istituzioni hanno il dovere di assicurare la tutela di quel diritto, anche con l’introduzione di norme in grado di dissuadere chi si approfitta del pubblico risparmio, perché il ricorso in giudizio è diventato agevole e poco costoso. Ad esempio concedendo la facoltà di ricorsi senza costi per i danneggiati, in cambio di una percentuale del danno riconosciuta a chi s’è assunto il rischio di finanziare la causa.
Il caso SCI è un tipico esempio che dimostra il comportamento di chi vuole approfittarsi dei risparmiatori. La scarsa reattività degli azionisti, causata delle complessità giuridiche e degli enormi costi che dovrebbero affrontare, nel caso in cui agissero come singoli ricorrenti, li rende vulnerabili nei confronti di chi vuole approfittarsi di loro, attuando con scaltrezza ogni possibile furbizia, anziché rispettare i loro diritti. Nell’aprile del 2019 avevamo pubblicato 2 articoli sul tema, e riportiamo i link per agevolare chi volesse leggere una versione dei fatti più dettagliata: https://vocedegliazionisti.it/sci-societa-costruzione-italiana-1/ e https://vocedegliazionisti.it/sci-societa-costruzione-italiana-2/
Descrizione sintetica dei fatti.
- La SCI era una società di Genova quotata alla borsa di Milano, attiva nel settore delle costruzioni. Nel 1996, a causa della crisi immobiliare esplosa nel 1993, era in crisi di liquidità. Le banche creditrici decisero di convertire i propri crediti in azioni della società e di sostenerla con l’approvazione di un aumento di capitale senza l’esclusione del diritto d’opzione.
- Nella primavera del 19667 dopo la realizzazione dell’aumento di capitale, le banche detenevano complessivamente il 78% del capitale sociale.
- Le quotazioni del titolo, anche se in un contesto volatile, si approssimarono al mese di agosto senza scostamenti che potessero fare presupporre movimenti anomali. Poi, a seguito della diffusione di una notizia non ufficiale, sul possibile lancio di un’offerta pubblica di acquisto (OPA), diffusa soprattutto in Lombardia, il titolo si impennò con scambi molto elevati, arrivando a valere più del triplo del prezzo pagato per l’adesione all’aumento di capitale. Negli ultimi giorni di agosto 1997, le quotazioni iniziarono a ridimensionarsi progressivamente. Nel 1998 la società fu dichiarata fallita.
- Al momento della sospensione del titolo, risultò che le banche erano scese al 14%, avendo venduto sul mercato una massa enorme dei titoli posseduti. Nel 2004 le banche risultarono soccombenti nel giudizio di primo grado, in un’azione risarcitoria avviata da una ventina di azionisti.
- L’Avvocato Cino Raffa Ugolini con determinazione e competenza, non si lasciò intimidire dalla reiterata resistenza delle banche e dopo 2 cause e 5 gradi di giudizio, il 3 luglio 2014 ottenne la vittoria definitiva con la sentenza 15.244 emessa dalla Corte di Cassazione in cui si condannavano le banche a risarcire gli azionisti. Il motivo della condanna era: le banche non potevano vendere le azioni, perché erano in possesso di informazioni non note al mercato.
Ne consegue che, se fosse stata possibile un’azione collettiva con norme di riferimento chiare che prevedessero la possibilità a tutti i danneggiati di farsi risarcire facendo riferimento a quella sentenza, le banche non avrebbero avuto interesse a fare ricorso ad una strategia che si era rivelata vantaggiosa, nonostante la soccombenza in giudizio, perché il danno avrebbe dovuto essere risarcito a tutti i danneggiati e non solo ai 20 ricorrenti.
Ad uscire sconfitto da quella sentenza, oltre ai danneggiati che non avevano potuto o voluto agire in giudizio, fu lo Stato Italiano che non aveva saputo introdurre norme indispensabili per dissuadere gli operatori di mercato dal commettere illeciti. L’assenza di norme che favoriscano il risarcimento dei danni, anche a chi non poteva permettersi un ricorso in giudizio, documenta che nel nostro ordinamento giuridico non esistano leggi che garantiscano la tutela del diritto garantito dall’Art. 47 della nostra Costituzione, perché chi ha commesso un illecito passato in giudicato, ha tratto un profitto enorme da quel comportamento, mentre la massa dei danneggiati non è stata risarcita, nonostante la sentenza di Cassazione abbia stabilito che i loro risparmi erano stati sottratti con un comportamento definito illecito da una sentenza definitiva.